mercoledì 7 novembre 2012

SettimArte: Nico Cirasola - Odore di pioggia


Regia: Nico Cirasola
Anno: 1989
Paese: Italia
Genere: commedia/ drammatico
Sceneggiatura: Nico Cirasola
Cast:  Renzo Arbore , Totò Onnis , Agnete Vossgard, Nico Cirasola

Dipingere i tratti di questa parte suddissima d’Italia in toni tanto epici e drammatici fa sorridere. Perché gli spunti mitici ci sono, eccome. Magari i più attenti possono aver avvertito la nota ironica già nel titolo, nella terra dove della pioggia solo odore si sente, nelle estati che paiono più africane che altro, nei campi arsi e silenziosi, nelle piazzette deserte dei paesini a mezzogiorno, nei discorsi a ritmo di litania dei vecchi come dei giovani. Ma questo lo capisce solo un pugliese e se la ride tra sé e sé, se ne ha la voglia e l’età. Eppure, strano a dirsi, la pioggia arriva sul serio, come arrivava un’incredibile neve siciliana a chiudere quella famosa novella di Verga.

Di storia vera, cronologicamente parlando, c’è poco. Si tratta di un affastellamento di immagini e scene, musica e parole, una tavolozza di colori accuratamente scelti e una certa aria d’innocenza seminale che in giro si vede ormai di rado. Protagonista è un giovane dell’entroterra barese, Totò, figlio di un capo ferroviere, e fratello di uno sfaccendato peggiore di lui, una vita persa a inseguire il sogno americano, arrivato fin troppo tardi quaggiù, dove il rock’n’roll alla Elvis sfuma nel blues e nel canto delle cicale. Armato di una mitologica moto e gel nei capelli, commette l’impudenza di innamorarsi della straniera di turno, ovviamente maritata a un militare sempre tragicamente in mimetica, fin troppo impegnato a perdere a biliardo piuttosto che portare in giro l’annoiata mogliettina, che egregiamente, dopo un lungo corteggiamento dall’aria retrò, decide di consolarsi con l’ammiratore non poi tanto segreto e scappare con lui. Da non dimenticare che il giovanotto ha velleità poetiche, fa dell’arte, sebbene si tratti del genio incompreso da tutti, famiglia, popolino, artisti di professione addirittura. Unica valvola di sfogo la trova nelle fantasie di cui ci rende partecipi, dei sogni a occhi a aperti o meno, delle fumate in compagnia. Totò si sente stretto in quel mondo, vuole evadere ma non sa come, e sogna l’America. Sogna l’Americana. Ed è curioso di come riesca alla fine, con un colpo di scena garbato e decisamente apprezzabile, a realizzare il suo piano di fuga e ad uscirne del tutto redento. Curioso perché il suo destino sembrava già segnato, una processione interminabile di mattinate iniziate con la luna storta e il rimbombo del treno nelle orecchie. Dopotutto vivere affianco a una ferrovia comporta anche questo, soprattutto se tuo padre è ferroviere e ti da’ del lazzarone perché tu non lo sarai mai.



 “Possibile che qui tra treni e persone non si possa mai dormire in pace?” , ripete Totò, alla madre che gli nasconde i suoi scritti (quale incosciente violenza!) , al padre che lo butta già dal letto per ricordargli che ormai lo aspettano solo i campi, al fratello che gli propina vestiti rubati per presentarsi alla fantomatica Sagra del Panzerotto che, nonostante la cura e l’impegno che pare dedicargli il nostro, risulterà un fiasco. Ma dove si è visto mai che in una sagra paesana con tanto di ballerine a ritmo di disco la gente si mette ad ascoltare i deliri dell’acchiappamosch? E così fa una fine da scolaretto bastonato e si ritira dal palco, con tanto di coro di fischi. Problemi suoi se si è voluto esporre così, da ingenuo qual è lo capisce al varco che l’arte non è naturalezza, non si può semplicemente buttare fuori quello che si pensa e si crede, come lui fa durante gli incontri con l’americana, una canzone cantata insieme e via, o quando si ritira da solo a scriversi versi sgangherati sulle mani. Gli dice bene il Satiro del castello “Addirittura pagano per la poesia?” , stando a significare quanto sempliciotti fossero i sogni di Totò, che pensava di sbancare mettendosi a declamare pubblicamente (notare come la famiglia sia assente alla rappresentazione) .  Decisamente combattuto, il nostro personaggio, imbevuto com’è nell’ipnosi della fantomatica radio che imperversa per tutto il film (con la voce di Vito Riviello) , ma incatenato all’ordine dai richiami dei mal assortiti genitori, che non ci sentiamo di condannare fino in fondo: sono generazioni e modi di pensare opposti, alla scontro aperto, l’uno pronto a tutto pur di “costruire” qualcosa di saldo e sicuro, l’altro per “costruire” qualcosa di cui neanche ha la certezza, una torre di Babele di idee, solo la parvenza di una vaga ispirazione.
Giustamente con l’arte non si mangia, ma Totò non si farà etichettare come buono a nulla. E lo fa attraverso l’Americana, anche lei, come la tanto attesa pioggia che non si decide a scendere dai nuvoloni che passano, è una presenza fuori luogo, una Diana che insegue farfalle avvolta in abiti stravaganti, ha quest’aria anni ’20, da mitologica femme fatale, androgina, solitaria. E’ il mondo del nord che si incontra con quello del sud, in una simbologia ingenuamente efficace: la biondina filiforme confrontata all’abbronzata signorina che aspetta il treno (e si saprà poi che è una passeggera a suo modo abituale, le abitudini in fondo sono sempre le stesse a qualunque latitudine) ; i due protagonisti che si incontrano a Castel del Monte, culla d’incontro di una dinastia germanica e una sud-italiana, dove ci appaiono moderne Sibille, il Satiro già nominato, tre bambine che ricordano le Grazie o forse le Parche; sempre i due in treno con il palleggiamento di primi piani ad angolo, volti persi nella penombra, ma perfettamente classificabili somaticamente parlando.
Paradossalmente, Totò sta meglio con lei che con i suoi simili che, raccontati per come sono, ci sembra quasi di doverli incontrare per la strada. Un azzeccatissimo e atteso Renzo Arbore nei panni di un ispirato barbiere (il rimando a Rossini è quasi scontato)  tiene una lezione improvvisata sul’importanza del ritmo nella vita, sostenendo che ci sono mestieri e mestieri e non a tutti è possibile applicare un ritmo da seguire, da intendersi come una spiegazione al male di vivere di Totò: inutile forzare l’ispirazione, non si va a cercare chissà dove né al contempo la si aspetta senza far niente. Meglio è piuttosto sapere come andarla a trovare, e affinare i mezzi, gli strumenti, i “rasoi” della propria arte. Questo è il tipo di saggezza che concilia i mondi contrapposti i genitori e figli, una saggezza senza tempo e costrizioni, che naturalmente si adatta a tempi e circostanze e resta per sempre, sebbene non si faccia facilmente reperire perché è andata a farsi un caffettino al bar.
Si intravedono intrighi e delitti di una classe dirigente stanca, ma tuttavia impettita e tronfia, totalmente avulsa dal reale, a cominciare dal marito sotto ipnosi dell’americana e per finire al nominatissimo assessore, tutti dipinti con una forte nota di macchiettismo e humour nero, che guarda caso si ritrova tutta nel saloon del barbiere, con tanto di chitarrista blues che sottolinea musicalmente la rasatura e moccioso lustrascarpe, omaggio a De Sica.
A loro contrapposti, il Jaguaro, sarebbe a dire il regista sotto le mentite spoglie del personaggio poco raccomandabile di cui il padre rimprovera la frequentazione al figlio minore, e lo zio di Totò, unica figura “materna” del film, autore di un breve “flashback nel flashback” a ricordare i tempi andati in cui si scomodavano i santi per corteggiare le ragazze.

In effetti il lavoro è tutto un ricordo (in cui, però, bisogna far fede sulla propria memoria e tener presente le prime battute del film, dacché il rimando risulta alquanto labile e lontano) , della coppia di amanti in treno che parte dopo aver consumato l’omicidio del marito (lei) e aver inscenato la tragedia (lui) . Nessun mezzo di trasporto più adatto: i treni e le ferrovie la fanno da padrone per tutta la visione, come a esprimere il desiderio d’evasione di Totò, a sottendere che in quel luogo dimenticato sono l’unico mezzo possibile, sebbene siano tratteggiati anche questi a tinte epiche, futuriste: riprese lievemente dal basso e largo uso del grandangolo, panoramiche e contrasti di colore li fanno sembrare monumenti. I campi lunghi e le panoramiche risultano a prima vista ingenue, con questi sfondi naturalistici, i campi, il cielo, solo poi ci accorgiamo di quanto siano stratificate e “spesse” , intense, queste riprese, delle cartoline  a più piani, bell’esempio di descrizione paesaggistica. Sostanzialmente la camera, visti anche luoghi e tempi dell’azione, non segue moltissimo e non si muove molto rapidamente, preferendo inquadrature alquanto plastiche, e ovviando alla cosa per mezzo del montaggio rapido, quasi a rimbalzo da un punto di vista a un altro. Al contrario, doppia importanza è data al colore, fin dalle prime battute concentrato su tra colori base: verde, bianco e rosso, difficile catalogarlo come semplice patriottismo, e altisonante oltre che retrò collegarlo all’unità nazionale. 


Il rosso in particolare. Si perde il conto delle scene in cui si annoverano particolari rossi su sfondo solitamente scuro, semplicisticamente per ravvivare la scena troppo cupa, simbolicamente per evitare la piattezza espressiva  che il luogo torpido emana, quasi un campanello sempre acceso, ma senza allarmismi. E difatti i due forse unici personaggi completamente negativi dell’opera, gli “esattori” dei debiti di Totò che gli appaiono in sogno, sono tutti e due in nero.

In senso fotografico, punto focale è la scena della fontana, nel secondo tempo: un complesso quadro con fuoco in primo piano sulle spalle della ragazza fa rientrare in secondo piano il volto di Totò incorniciato dalla ruota, sfocato. Sembra di rivedere la scena evangelica della donna samaritana. E infatti la ragazza chiede acqua, venendo paradossalmente accontentata da una pioggia torrenziale che funge da espediente narrativo, come nella migliore delle tradizioni, a far appartare in una grotta i due, novelli Enea e Didone. Ma hanno l’aria di chi la scena l’ha già vista, volutamente non c’è enfasi e la cosa non è sottolineata, facendola per contrasto risaltare maggiormente: è come se i due, capendosi al volo, avessero saputo già in anticipo dove sarebbero andati a finire, per cui la storia si consuma nell’aria squisita di un idillio prosaico, dai toni moderati e senza scandali.
Forse sono i due personaggi più sicuri, nonostante tutto, non si affannano, sebbene le loro origini siano ben diverse (e la ragazza sottolinei, quasi fuori luogo, di avere avuto un’infanzia contadina) a cercare sempre una spiegazione lampante: entrambi preferiscono ritirarsi in una sonnolenta riflessività, certi, quasi come un atto di fede, che tutto si metterà in ordine. E’ solo per questo motivo che non ci spaventa la disarmante lucidità con cui l’americana gioca alla roulette russa e uccide, difatti niente le succede.

La favola si conclude così, forse in maniera un po’sbrigativa, ma non importa, la morale qui non sta alla fine, dura tutta la visione. E quasi quasi abbiamo tutti tirato un sospiro di sollievo nel vedere i due fratelli che s’incontrano in treno, improvvisamente realizzati, come appunto in una favola. Sembra di sentirsi dire “Era destino” . Forse. O forse sono semplicemente i simboli, gli eroi di questo piccolo poema epico sudista.

-R.

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